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gennaio 20, 2009

“e parcheggia la sua macchina enorme, una BMW completamente nera, un SUV, una cazzo di jeep, insomma; comunque la vuoi chiamare: la parcheggia con tutte e quattro le ruote sul marciapiede, in curva, proprio dove fino a qualche anno c'era un tiglio lungo e placido come un giorno di luglio – e si noti il che di simbolico nella cosa, prego – e poi esce. Aveva un caschetto di capelli a paggio deficiente ma alla moda, un piumino lucido nero avvitato molto alla moda e un bel borsello chic a tracolla o di Gucci o di Yves Saint-Laurent o di qualcun altro di quelli lì. Di più, non ho notato – stavo già male, e pensavo povero ragazzo – e lui è entrato alle Poste, di fretta. E era lui, ti dico. Lui. Ventiquattro, ventisette anni dopo, lui. Il mio compagno di banco delle elementari, ora presumibilmente e ragionevolmente pieno di soldi o magari finanziamenti, e tirato a lucido come a un evento per bella gente in un qualche location molto fashion. Sono ancora senza parole: oh, non ho mai saputo se anche allora fosse così, in potenza, o magari di famiglia, eccetera eccetera, ma insomma: eravamo bambini, capisci? Di cosa potevamo parlare? Lui aveva sei anni; io, anche: l'unica cosa che mi ricordo è che era pieno di parentele strane, per averci sei anni: c'aveva il nipote, la cognata, milioni di sorelle e cugini e zie e altri nipoti e poi ancora cognati... cazzo! E poi era convinto che il commissario Zuzzurro fosse il CommissarioSSussurro. Ti rendi conto, di che razza di idiota? Mi ci vollero forse quattro dei cinque anni per convincerlo del contrario. E anche allora tirò in ballo la sorella o la cognata o che so io. Non era colpa sua. E nota che io non l'ho nemmeno mai richiesto come compagno di banco. Non ci conoscevo nemmeno nessuno a quella scuola; me ne stavo lì, da solo con una gamba ripiegata sotto il culo, il primo giorno di scuola, e appoggiato di fianco al mio banco c'era un quadretto di polistirolo con paperino con un'espressione triste e un fondale giallo e verde, e quello si presentò lì e si mise a sedere. Aveva una cartella bianca e rossa, a quadri, e quello stesso caschetto. Era senza denti davanti.”
Feci una pausa, buttandomi all'indietro sulla poltrona. Tutto pareva minaccioso, anche la pianta che lui aveva messo nel salotto. Una pianta da salotto, un albero animato che cerca d'incularti, quasi come ne La Casa. È incredibile cosa possono farci fare, le nostre emozioni e le nostre idee. E non dico nulla dell'orrida lampada ad acqua anni settanta.
“Sì, mi rendo conto”, provò a dire, “ma se non ci conoscevi nessuno, uno valeva l'altro e...”
“un cazzo!”, urlai, puntando con orgoglio il dito verso quello che mi sembrava un fantasma e che forse era solo un lampadario, “uno non vale mai l'altro. Si sa. E poi uno che conoscevo c'era, e si chiamava Emiliano, e era venuto all'asilo con me. Cioè, non che ci frequentassimo o si andasse a farci una birra o cose così, ma insomma lo conoscevo. E invece lui s'era messo accanto a uno che poi a metà anno si trasferì a Milano, o in qualche altro posto da merde. E anche dopo, si mise accanto a un altro che si chiamava DeChirico Massimo – e bada che quello il suo nome lo pronunciava così, sempre: cognome, calcando sulle maiuscole, e nome – e che avrà avuto un anno più di noi e c'aveva la barba sul collo! E poi a me mi piaceva la Giada, e quella stette accanto tutti e cinque gli anni al Lorello, che era uno che nella vita, poi, avrà fatto al massimo il procacciatore monomandatario d'agenzia o qualche altra stronzata così. E io, tutti e cinque gli anni con questo accanto, e ogni volta che mia nonna veniva a prendermi all'uscita mi diceva, al riguardo: occhill'è'qqui'bbambino chepare una bambina?, e io dovevo dire, ogni volta, è il mio compagno di banco, nonna. E tutto perché ci facevano uscire mano nella mano col proprio compagno di banco. E poco più indietro c'era la Giada col Lorello, capisci?”
Lui si appoggiò allo schienale del divano, alzando gli occhi al cielo. Si potrebbe anche dire che sbuffò, non fosse che cercava di nasconderlo (quindi non sarebbe giusto dirlo; non voleva si notasse).
Proseguii:
“e io oggi, con la mia mezza giornata libera, che tra l'altro son costretto a buttar via con le commissioni che mi restano indietro, tipo cercare una zeppa adesiva fermaporta o far la fila per pagare il canone bollato di 'sta minchia, giro l'angolo e lo vedo, lì, che pare il padrone del mondo e delle sue province. E bada che era lui.
E allora... proprio allora capisci... oh sì, lo capisci veramente... capisci in tutto e per tutto, nella sua globalità, per intero, cazzo, che la vita fa veramente schifo, e t'ha sempre preso per il culo!”
Silenzio. Tutt'intorno, orrido gusto in fatto d'arredamento. O solo io che vedevo come Hunter Thompson o il suo avvocato dopo un qualche trip d'acido.
“Ti capisco”, fece lui.
“Mi capisci?”
“Sì, ti capisco...”
“no, invece. No. tu non capisci. Nessuno capisce. Nessuno può capirla 'sta roba”.
Davvero. Non poteva certo capire. Fissavo il vuoto, amaro.
“Sì, ti capisco invece. Qualche giorno fa, mentre andavo a lavoro c'era questa trasmissione sugli italiani che hanno fatto il botto all'estero. Merda vera, roba da cambiar canale all'istante. Solo che, visto che stavo mangiando un mandarino, e dico che avevo appena intaccato la buccia coi denti mentre guidavo e cercavo di scalare in seconda e girare alla rotonda, non potevo far altro che stare a sentire. Tutta una serie di italo-americani o di gente che ha fatto questo e quello, e qui facevano la fame. Da Ivo Monta a Concettina qualcos'altro, sai. Poi il conduttore dice: e ora questo bel pezzo, che lo canta Al Green, sentite che roba. Il pezzo parte, ed era una vecchia hit dei Texas. Te li ricordi i Texas? Cazzo, i Texas. Solo che Al Green l'aveva cantato circa vent'anni prima, il pezzo. E io ho sempre pensato che fosse dei Texas. I Texas... c'avevano quella cantante che era pure carina, I Texax scassano proprio il cazzo. Di brutto, no? E invece... aspetta, come si chiamava il pezzo?”
Conoscevo quella storia. Era sempre la stessa, anche se lui la raccontava come fosse una novità, scuotendo la testa e quant'altro. Dissi:
“si chiamava I'm so tired of being alone. È sempre la solita stronzata. L'ha cantata Al Green nel '57, e i Texas oggi o qualche anno fa, cazzo. Ma non hai mai aneddoti nuovi, per aiutarmi, Cristo santo?”
Rimase in silenzio, come mortificato che non capissi le implicazioni profonde della cosa. A scusarmi, alzai le mani, i palmi verso di lui. Cantilenai:
“Ok, ammetto che anche a te la vita ti ha preso per il culo, ok! Adesso andiamo. Devo rientrare a lavorare”
"Già", fece lui, mesto e compunto.
“Merda, sì”, feci io, “a lavorare. Quello stronzo, lì, con la sua BMW parcheggiata di traverso, ci sarà  mai andato, a lavorare?”
Proprio, sì: il mondo era tutt'altro che un bel posto.

2 commenti:

Lypsak ha detto...

Sì, sarà un grande romanzo (anche della minchia - TM - ma si sa che la minchia produce sempre grandi ispirazioni), e io ne comprerò due o tre copie tipo manco fosse i Tokiotél.

ciofo ha detto...


o come mai la scuola infondoinfondo la ODIANO tutti?


Per fortuna i compagni di classe li ho persi di vista (quasi tutti) uno di loro e' MORTO di sicuro, come pure un professore per troppe sigarette, degli altri non ho saputo piu' nulla, spero solo che se hanno il SUV ci si AMMAZZINO e soprattutto spero di saperlo che ogni tanto una piccola soddisfazione in questo mondodimerda(marchio registrato aut.min.ric.) ci vuole.