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novembre 26, 2009

Nel posto dove mi trovo a dover passare mio malgrado la maggior parte delle mie ore da sveglio, in questi giorni è venuto un programmatore di computer.
Doveva sistemare il portale dell'azienda, una cosa per favorire & incrementare il flusso di denaro verso la medesima, conseguentemente migliorarando il tenore di vita dei titolari, il tutto con l'ausilio di internet e la moderna tecnologia in genere.
Perché bisogna sempre migliorare, ambire e competere, nelle moderne società basate su un'economia di mercato.
È arrivato ed ha piazzato il suo portatile sul tavolo; aveva più o meno la mia età. Ha cominciato a lavorare, con me accanto. Dovevamo guardare insieme alcuni aspetti della cosa, perché sono io quello da cui tutto è passato, in questo caso. L'oscura rotella tra il capoccia e chi materialmente fa.
A me sono tornate in mente cose.
Ripensavo ai primi computer, o almeno a quelli che per me furono i primi computer, in fine anni '80 - diciamo nel periodo post atari e pre amiga, lasciando stare il C=64, che faceva parte d'un altra strada, non la mia. Già: io avevo il C=16 prima e il Plus4 poi (e ok, furono due fallimenti, da un sacco di punti di vista, ma in un modo o nell'altro le strade su cui mi trovavo io non erano mai quelle giuste - perché questa avrebbe dovuto far eccezione? Ma questo è tutt'altro discorso, e come mi disse una tizia che mi lesse il fondo del caffè anni fa io le mie belle porte le trovo quasi sempre chiuse, e dopo aver sbagliato almeno una volta o due la strada, quindi passiamo oltre).
A seguire, mi è venuto in mente l'Istituto Svizzero di Tecnica, che nient'altro sarebbe che una specie di scuola per corrispondenza per imparare un po' a programmare con quello che era il linguaggio di allora: il basic. Coi primi computer, mio padre cominciò a fare questo corso, che prevedeva delle dispense e degli esercizi, con invii reinvii e correzioni, una lezione dopo l'altra. Cominciammo a farlo insieme, e ancora ricordo i grossi pacchi avvolti in carta marrone che il postino ci scaricava sotto il loggiato ogni mese - raccoglitori, dispense, etc. Ricordo anche le correzioni fatte a penna del professore che correggeva i nostri elaborati, che spesso erano stampati con la stampante ad aghi, quella che utilizzava la carta a righe orizzontali grigie e celestine, quella coi buchi ai lati, perché il carrello della stampante potesse farla scorrere.
Più che altro, tutto questo mi ha portato a ricordare una correzione che mio padre mi fece leggere, un po' di tempo dopo che il corso era iniziato: "Ottimo lavoro, ma come mai suo figlio non collabora più?"
Mi chiesi come facesse a saperlo, e pensai che fosse stato lui ad aggiungere la frase, ed ancora oggi tutto quel che mi vien da dire è soltanto che mi dispiace... come sempre, tra l'altro, di un sacco di cose.

Non credo di esser stato granché, in quella occasione, come in altre. A volte sì, ma molte, molte meno.
Poi, il programmatore mi chiese com'è che volevano che venissero emesse le fatture, e io glielo spiegai, dopodiché tornò a lavorare, sul suo portatile extra large.
Io mi stavo dicendo che magari, se avessi dato modo a quel professore (o a mio padre) di non scriver quella frase, oggi potevo esserci io, al suo posto.
O magari chissà, no. A volte basta un niente, per prendere una strada diversa.
Alla fine, comunque, il punto era sempre il solito: che io non c'ho mai capito veramente un cazzo, nella vita...

novembre 18, 2009

LE SORDYDE AVVENTURE LAVORATIVE DI TVBJNGXYA©

Tvbjngxya© si gira, disturbato per l'ennesima volta da MotorinoChieditore©, come al solito totalmente inetto/a & bisognoso/a d'ogni tipo d'aiuto et indirizzo, nonostante la Realtà chiamata Azienda sia di sua proprietà e generi ricchezza a suo esclusivo beneficio. C'è un attimo di silenzio. D'improvviso, dagli occhi di Tvbjngxya© escono due fasci da Raggi Gamma, e MotorinoChieditore© schianta. Schianta dall'interno, esplodendo e gioiosamente spargendosi un po' sul muro a destra e un po' sul muro a sinistra.
Poco è il tempo posto in mezzo che squilla il telefono. E' Pfhatygheng©, identifiicativo: contabile petulante & acido/a. Dalla bocca,Tvbjngxya© fa immediatamente partire il Tifone Infernale, che si insinua nel telefono e va a sconfiggere Pfhatygheng©, che sull'immediato spira, la cornetta ancora all'orecchio.
Indi, Tvbjngxya© si gode il silenzio. Si fa il caffè. Guarda il vuoto. Alza il telefono e chiama Phyrympji©. Con Phyrympji© inizia a ciaccolàre, riferendo l'accaduto e progettando radiosi avveniri. Alla sua ora, Tvbjngxya© esce. Dà due mandate alla porta e si dirige verso casa.
Ed è allora che la sveglia suona.

novembre 13, 2009

Pretend that you owe me nothing,
and all the world is green.
We can bring back the old days again,
and all the world is green.
 

Io avrei una domanda, se permette; una domanda che comincia con una storia. Una storia che racconta di...
un circo sgangherato e straccione; un circo di saltimbanchi e acrobati, imbonitori in baracconi e personaggi più o meno usciti da testi di Tom Waits; un circo che esce piano dal buio e su una melodia povera e sinistra va nella penombra – perché è impensabile che un circo così esca dal buio per entrare nella luce, ma questo vien da sé; poi inizia lo spettacolo, e si cerca di attirar la gente con trucchi da quattro soldi, un po' di poesia, meraviglia, qualche canzonetta e il fascino del poco, negli stracci e nelle parole.
A poco a poco le performance si esauriscono, i guitti lasciano i loro strumenti, i loro carrelli, i loro sinistri attrezzi ed uno a uno si defilano. La luce si spegne su ogni postazione - una dopo l'altra restano al buio, che torna ad avanzare nella sala. Gli artisti sono tutti scomparsi, e non si vede quasi più nulla. Noi, gli spettatori che giravano fra i banchi ed ascoltavano le storie, istintivamente li seguiamo, loro che nel frattempo si rivelano messi ai nostri lati, a farci un corridoio verso l'uscita, che rimane l'unico punto di luce lontana. Nel passargli accanto, ognuno di loro mette in mano un foglietto a una persona. Sento la mano di qualcuno nella mia, e non so proprio chi sia, se la lanciatrice di materiali arrugginiti, la peccaminosa, l'agente di viaggio delle quattro tende, la manipolatrice di vecchi ricordi. La conduttrice del cavallo che depone frutta se risolvi i suoi indovinelli. Il tizio che comanda una testa che dà risposte a domande che nessuno ha posto nella scatola. Il nano che ha una bambola più grossa di lui che canta.
Comunque, non possiamo far altro che camminare verso la luce. Poi, ci guarderemo cosa la sorte ha lasciato nel palmo della nostra mano.
Si chiudono le porte; siamo fuori: tutti strizziamo gli occhi, per il fatto di esser tornati nella luce.
Io mi guardo la mano. Svolgo il foglietto, una carta grezza color senape, da tovaglietta di trattoria.
C'è scritto:

Signore, deve tornare a valle. Lei cerca davanti a sé ciò che ha lasciato alle spalle.
Non mi dico niente di particolare. Solo, difficilie che fosse così, alla fine. C'erano circa cinquanta persone, là dentro; cinquanta persone e dieci saltimbanchi. Ascolto cosa dicono di avere gli altri. Ripenso che è una cosa quantomeno singolare, e che niente succede per caso.
Un tempo avevo scritto una relazione, riguardo il poeta le cui parole ho adesso nella mano. Me le continuo a guardare, mani e parole, foglietto lungo e dita che lo tengono aperto. È un poeta che nessuno conosce, fuori dal settore – non è Pasolini né Montale, insomma.
Poi sono passati molti anni, e in quella che è diventata la mia vita, per come questa si è svolta e pare continuare a svolgersi, di Giorgio Caproni e del franco cacciatore; della poesia, di molte cose che avevo imparato a quei tempi, non ho dovuto avere più bisogno. Avevo messo tutto lì, in un angolo, dietro mille altre inutili e più noiose incombenze. Cose per conto di altri, che coprivano tutto il resto, ogni giorno di più, rendendolo sempre più inaccessibile, come un ricordo sempre più lontano che svanisce lento.
La cosa curiosa è che poco tempo prima del circo, senza un nesso o motivo apparenti, una persona, ad una cena, mi chiese:
Conosci Caproni?
Tornò inevitabilmente fuori la mia vecchia relazione; questa persona la volle, la lesse e nulla ne venne fuori. Mi disse bravo, tutt'al più. Cos'altro poteva fare, d'altra parte?
Poi mi sono ritrovato a un circo waitsiano, una sera, dopo aver buttato giù una manciata di pistacchi vinchi e patatine con un bicchiere di vino rosso, e un qualche personaggio mi ha messo in mano una frase di Caproni. Caproni nessuno lo conosce, o quasi, e lì dentro eravamo in tanti. E un tizio che aveva una qualche attrazione e molti stracci, mi ha messo in mano una sua frase, che lui stesso aveva scritto su un foglietto strappato.

Posso tornare al presente, adesso. La mia storia è finita. Nel presente, adesso, posso fare la mia domanda: 


Cosa sta cercando di dirmi, la vita?

The moon is yellow silver -
oh, the things that summer brings.
It's a love you'd kill for,
and all the world is green

novembre 12, 2009

PERIODI FELICI, REMIND #1

Di me che esco da lezione col mio zaino. La voce nel microfono, quel che ho sentito, le file lunghe dei banchi unici dell’aula magna, l’atmosfera generale. Scendo le scale; tutto piuttosto sporco, e fogli appuntati con le puntine alle pareti rivestite di legno (“vendo D.J. Grout, Storia della musica in occidente, usato, ottime condizioni”; “Affittasi camera per ragazza zona santa reparata”). C’è poca gente. Fuori è buio; torno - mentre chiedo che ore sono a un tizio - verso la stazione, sapendo che entrerò alla Feltrinelli.
Ormai so dove si trovano tutti i reparti, l'ordine delle singole case editrici; la gente potrebbe chiedere a me (“Storia? primo piano, subito a destra!”; “Fenoglio mi pare sia nella Einaudi… dritto, poi destra per i Tascabili; sinistra e poi subito di fronte se lo cerchi nei Coralli”): scendo le scale; piano di sotto - musica, cinema, fumetti.
Le ultime uscite delle nuove edizioni di Schultz. Peanuts, per stare anche meglio, a dispetto di tutto. A quattro a quattro, libretti piccoli, Baldini & Castoldi; escono senza una cadenza precisata. Pago e proseguo per la stazione, con l’aria fredda e la gente che mi passa accanto. Lo zaino in spalla e il sacchetto di plastica in mano. Tra poco lo butterò via, e infilerò il contenuto nello zaino.
Il treno è affollato, solita e squallida luce al neon. Lo percorro verso la testa, cercando di non incontrar lo sguardo di gente che posso conoscere, perché voglio sedermi da solo, per continuare a leggere La Certosa di Parma.
Sì... qualche tempo prima – ero al primo anno, e tornavo con un ragazzo con cui condividevo un corso – stavo leggendo per conto mio, incurante del fatto che lui fosse accanto e non leggesse. Il Rosso e il Nero - sempre Stendhal, ma in una pessima edizione, molto anni ’70 (forse davvero anni '70), carta rugosa e caratteri minuscoli. Chiudo il libro quando siamo vicini all’arrivo. Ho finito. Lui mi guarda e mi fa: “chi è l’assassino?”
Cazzo dici, penso io. È Il Rosso e il Nero, mica Agatha Christie (p
er questo poi cerco di non incrociare sguardi che non voglio).
Oggi lui lavora in TV, io sono un bischero qualunque.