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dicembre 30, 2010

YOU GOTTA SERVE SOMEBODY / HEAVEN MUST BE A PLACE FOR THOSE WHO PRAY (ay ay ay)

Finisce un altro anno, e se dovessi perder tempo a classificarlo direi semplicemente che è stato come tutti. Né bello né brutto, progressi e regressi, quantomeno un affinare e definire un sentimento di generica rabbia che avevo e forse mi avvelenava la vita, considerandola quale essa è e di quale natura siano le cose che uno ci fa durante. Ora, non che questa rabbia non ci sia più o che non mi avveleni la vita; semplicemente forse me la avvelena meno, o forse nemmeno questo è vero, ma mi dà un illusorio senso di sospensione, stasi, pace. No, nemmeno questo è vero, o quantomeno è vero a scatti, ma insomma non ho di meglio da fare e poi intendiamoci: non che odi il mio lavoro.
(Quanto al mio lavoro, la cosa che attualmente è legata a me in questa precisa contingenza posso anche dire, per quel che può valere, che ho fatto chiudere l'anno con buoni risultati, la micragnosa ditta per cui lavoro ha fatto il suo anno migliore, come soldi, profitto, abbassamento dei costi, ricarico percentuale etc - e non ho nemmeno false modestie o scrupoli nel riconscere che è "merito mio", per quanto questo non venga riconosciuto o ricompensato e nemmeno m'interessi più di tanto, per quel - ripeto - che vale, giacché quasi ogni attività lavorativa è qualcosa di inconcludentemente ripetitivo e meccanico, e alla fine anche a esser particolarmente gnucchi in qualche modo ci si ammaestra. Quindi no, non che odi il mio lavoro particolare).
Voglio dire: non più di quanto potrei odiarne un altro qualsiasi, fosse anche fare il maniscalco o dondolare le scimmie o impilare cataste in qualità di impiegato del catasto. Odio l'idea stessa di lavoro, come questo è strutturato e cosa questo comporta: odio il fatto che sia così totalizzante e al tempo stesso così stupido e ripetitivo; che ci metta in modo coatto di fronte a problemi e persone dei quali niente ci interesserebbe e delle quali niente vorremmo con (in) noi.
Mi sembra uno stridente e insopportabile controsenso (purtroppo: un controsenso portante, come noi fossimo la vita e questo il pilastro, l'architrave, fate voi) l'esser costretto a passare, al giorno, più tempo al fianco di persone effettivamente estranee – magari rendendosi conto che, fossi libero, le mie strade prenderebbero direzioni molto diverse dalle loro – che non al fianco delle persone che per me contano, possano queste essere la moglie, la fidanzata, gli amici, i familiari, quel che si vuole.
Mi sembra francamente indecente che questa debba essere la regola, e che se da questa si deroga, sia solo per un periodo relativamente breve: un giorno di permesso, due giorni di ferie, una settimana di ferie, tre giorni di malattia: un'ora d'aria, due giorni di libertà, una settimana di libertà vigilata, tre giorni in infermeria. E poi via che si riparte, come di consueto: e siamo costretti ad approfondire la conoscenza di queste persone, magari conoscere per via di racconti, i loro racconti, le rispettive famiglie, i loro aneddoti, le loro avventure, le loro allegrie e le loro tristezze. Ti fermi a pensare: chi sono, loro (o anche: ma davvero sto perdendo il sonno per questo)? E non riesci a trovare una risposta soddisfacente o quantomeno non disperante, meravigliandoti nel contempo di quanto in là ti sei spinto e quanto poco ormai parli con tua moglie e quanto invece con loro; quanto poco conosci lei o i tuoi cari e quanto sai del figlio del tuo capo e delle vicende di vita vissuta della collega. Avverti che con loro non sei per niente a casa; eppure sei costretto a sederti, metterti comodo, infilar le pantofole, magari ridere di quel che avviene e comunque stare lì, al tempo stesso sentendoti un estraneo svuotato sul divano di casa tua.
Si dirà: e perché per tutti loro non sarebbe lo stesso? Non potrebbero esser soggetti frustrati e potenzialmente depressi allo stesso modo? Be', a parte l'ovvia considerazione che se così fosse il mondo sarebbe un posto parecchio (più) scuro e improduttivo, quel che mi vien da notare è che a), è scattato in loro un meccanismo di identificazione che li pone al riparo da tutto questo; b), semplicemente, non ci pensano. È il Grande Segreto, in fin dei conti: il mondo è una pagina bianca per ognuno di noi, e ognuno di noi ci scrive sopra la propria storia, che è fatta di scelte, conoscenze, interessi. Se ti fermi e ti guardi un attimo indietro, scopri che quasi mai sono le tue scelte, le tue conoscenze, i tuoi interessi. O quantomeno, una percentuale molto bassa è tua; ma il resto è indotto, frutto di costrizioni, ineluttabili logiche di vita. Se non ci fai caso; se non ti fermi, se non guardi indietro e ti perdi a soppesare, vivrai la tua vita con semplicità. (A me sembra limitatezza o povertà, ma in definitiva son solo parole, e quindi forse ha ragione chi macina e tira dritto e tra un cazzo e l'altro racconta di quella e quell'altra volta che).
Quanto all'identificazione, credo che essa sia il Male Supremo proprio perché non siamo più il nostro lavoro – non perlomeno in senso positivo, nel senso diciamo in cui poteva esserlo un artigiano di una corporazione medievale. Non lo siamo dal momento in cui questo è diventato una costrizione, la Costrizione (se vogliamo, l'estremo di una proporzione i cui termini più o meno potrebbero essere il lavoro sta alla vita come il cibo sta ai soldi); non lo siamo, soprattutto, nel momento in cui noi andiamo verso il lavoro: ci alziamo dalla nostra casa, ognuno per la sua strada (nessuno dei due coniugi/conviventi può nel mondo moderno restare a casa perché – al di là di ragioni più o meno materiali, che spesso comunque son sopravvalutate; più paura che altro – altrimenti scatterebbe una qualche forma di depressione, e questo tra l'altro l'ho sempre trovato profondamente significativo) e usciamo; usciamo per tutto il giorno, per andare a trenta/cinquanta chilometri di distanza a fare qualcosa che quanto possa appartenerci è sintomaticamente dimostrato dal fatto che uno in vita solitamente fa quattro o cinque lavori diversi, solitamente molto differenti l'uno dall'altro; usciamo facendo questi trenta/cinquanta chilometri – poniamo – in direzione sud, proprio mentre un altro tizio sta facendo gli stessi trenta/cinquanta chilometri nella direzione inversa, del pari per andare a fare una cosa che gli appartiene quanto a noi appartiene l'altra.
Pensarci significa rendersi conto di quanto sia tragicomica la situazione: che senso può mai avere che Enio parta da Pedrano Boscone per andare a fare temperamatite automatici a Remedio val di Geppo, proprio mentre Zanubrio parte da Remedio val di Geppo per andare a produrre cuscinetti frenanti lubrificati a Pedrano Boscone? È questa l'identità dell'individuo, persa nelle code in autostrada, in occhi che si chiudono sul divano alla sera, in mal di schiena o infiammazioni del tunnel carpale e viste che si abbassano? Davvero, tutto quel che siamo riusciti a diventare, la Somma Conquista della nostra civiltà, sarebbe un parcellare sempre più fitto, fino a divenire minuscoli ingranaggi che girano come devono essere settati, sempre nello stesso verso più o meno come automi, dandoci in cambio la soddisfazione (?) di vederci come i protagonisti dell'episodio firmato Luchino Visconti in Boccaccio '70 (Il lavoro, appunto - quando almeno il cinema italiano diceva qualcosa di interessante)?
So già che si dirà certo, se fai qualcosa che non ti piace, questo è il risultato. No, cari miei, è riduttivo, una lettura troppo facile. È più una questione di ritmi, costrizioni, schiavitù: otto ore al giorno in quella realtà, per tutti i santi giorni, più il tempo dei trasferimenti in macchina o con mezzi, più il tempo dei pasti fuori casa, più gli eventuali (?) straordinari; tutta l'energia che si disperde, la tua: e tutto questo per cosa, col solo orientamento al fine del profitto (orizzonte del proprietario, dell'imprenditore, del capo – quantomeno loro si identificano – garaglò! – nei soldi, spesso anche facendo niente o poco, trincerandosi dietro un non ben identificato stress decisionale da possesso) oppure? Spazio bianco
orizzonte del lavoratore, che si può consolare autoconvincendosi che il suo lavoro gli piace e che la vita è tutta qui e tu ci sei proprio dentro, sguazzaci come meglio credi e misurati con quel che hai, sei il tuo lavoro adesso, (non sei niente).
Se fai qualcosa che ti piace, qualcosa che veramente ti piace, per cui senti una certa inclinazione hai almeno la soddisfazione di un'energia che non si disperde a vuoto. Ma resti nell'ingranaggio, un meccanismo che ti dice che se non guadagni non mangi, non sei nessuno, non fai cose chic con cui titilli il tuo ego, non puoi comprarti i vestiti griffati o il SUV o le vacanze alle Maldive. E questo meccanismo è talmente forte e radicato e (ahimè) vitale che se anche non puoi nessun problema: ci son le rate, i finanziamenti, i prestiti. Apparteniamo a, ed è importante che quanto c'è dopo la proposizione sia anche un modello o qualcosa a cui tendere, qualcosa con sempre più ramificazioni, lambiccamenti e arrampicamenti sugli specchi, desideri indotti per fare in modo che il denaro continui a circolare, e nel contempo ti inchiodi al tuo lavoro che ti piace perché sei tu e tu sei i tuoi soldi, perché tutto ha un prezzo e tutto costa, foss'anche qualcosa di nobile se a te può piacere qualcosa di nobile; in definitiva anche il posto nella tua nicchia che vorresti continuare a tenere e che invece è ogni giorno più mangiato dall'esterno, all'infinito finché anche la tua nicchia non ci sarà più e andrai alla cena di natale coi colleghi, raccontandosi aneddoti di lavoro che peraltro tutti, lì, conoscete già.
Mi pareva un progresso in me, pensare queste cose. Non cambieranno nulla, e niente succederà; ma poiché generalmente in questi giorni si van facendo propositi per l'anno nuovo... insomma, sì, ecco, questo è il mio: per il 2011, caro San Gaspare da Fermino, voglio scendere da questo Calcinculo Inconcludente e Molesto. Amen.

dicembre 26, 2010


L. pensava ai suoi nodi.
Sapeva di averne a migliaia, dentro di sé. Come capelli sporchi, che era poi un modo – anche se brutto – di sentirsi l'anima: capelli sporchi, sfibrati, nodi (appunto) e doppie punte. E andiamo.
Ne aveva anche parlato con uno bravo (se avessimo un'ambientazione newyorkese inizi '90 potremmo anche dire col suo analista), e in fondo sapeva che tutta la colpa era sua: sapeva che erano lì, che si erano formati e si stavano formando e si sarebbero formati ancora, e a poco valeva scioglierne uno o due, magari giusto in tempo per vedersene – o, per meglio dire, sentirsene – spuntare sette.
Per scioglierli, o quantomeno provare a farlo, gli era stato detto di fare la cosa che meno di tutte, forse, era disposto a fare: parlare, parlarne. Un nodo veniva per così dire isolato, minimizzato; e ridurlo in qualche modo voleva dire renderlo innocuo, se non del tutto sciolto. La personalità di ognuno di noi è come la superficie di una grattugia per il formaggio, gli aveva detto l'analista (sì, insomma: la persona di cui sopra), ed è molto facile, per non dire ovvio, che su quella superficie si fermi un sacco di roba, che questa si accumuli e si attorcigli, e dopo diventa tutto più difficile: prova un po', ad andare in giro con un sacco di roba non tuo, tutta appesa nei punti più scomodi e impensabili. Per scrollartela, però, ti può bastare guardarla, guardarla davvero, considerarla, e dire ad alta voce: ehi, e questo che diavolo è? E a quel punto lo togli. Facile. Se non se ne va, è segno che c'è da lavorarci un po' più in profondità, ma alla fine le cose che restano piantate lì sono una netta minoranza, ma se intanto sfoltisci tutto il ciarpame poi togliere quel che conta davvero sarà più facile.
Solo che, di parlare, L. non aveva proprio voglia. Era la cosa più faticosa che potesse immaginare, e la più vicina all'idea che si era fatto del concetto di frustrante che potesse avere: e se la persona che ho davanti di punto in bianco sbadiglia? E se qualcos'altro cattura la sua attenzione e mi rendo conto di star parlando a vuoto? E se mi vergogno? E se non riesco a dire quello che vorrei?
Coinvolgere altri soggetti, per quanto vicini, per quanto amici, in una cosa del genere gli pareva intollerabilmente difficile, e questo nonostante si rendesse chiaramente conto che tutto – i nodi, i disagi, le incomprensioni, come anche le cose più belle, dal fare l'amore al ridere passando per qualsiasi esperienza – fosse il risultato di una continua relazione con gli altri soggetti. Tutto è condiviso, e prima di tutto noi stessi; attraverso gli altri ci conosciamo di più, e solo attraverso gli altri – o meglio, attraverso la nostra esperienza con e degli altri: le emozioni che viviamo attraverso e assieme e in contrapposizione a loro, rielaborandole secondo il nostro punto di vista – acquistiamo significato: certo, gli altri ci lasciano un bel po' di ciarpame addosso, ma una volta che hai fatto una cernita (frutto di una più o meno approfondita riflessione sul concetto di altri), già hai circoscritto in modo utile – a quel punto si tratta solo di lavorare sugli episodi. Se il protagonista di Into the wild molla tutto e si ritrova solo in Alaska con un alce andato a male come (infausto) pranzo per giungere alfine a scrivere la felicità ha senso solo se condivisa, un motivo ci sarà.
Idem se è da sempre noto che siamo animali sociali. Un motivo, vuoi che non ci sia?
Da soli siamo un mare calmo e immoto. Bello quanto si vuole, ma piuttosto fermo, in tutti i sensi. Basta che qualcosa di esterno venga immesso – ed è, per così dire, inevitabile e giusto, ed ovviamente augurabile – ed ecco che la stasi se ne va. Ed è un bene. Da lì nascono confronti più o meno fecondi, opinioni, scintille, litigi, amplessi, pianti, frizioni, di tutto un po': da lì nasciamo noi stessi come persone, mari (al nostro punto di vista) che si confrontano e reagiscono ad altre forme di vita, più sullo sfondo, sul nostro sfondo – ciascuno il suo – ma agenti volontari o involontari, ditretti o indiretti di un buon 99% di tutto ciò che accade nel mare dell'io.
E per L. era proprio questa la causa della sua crisi e dei suoi nodi: magari aveva a che fare con una certa entità, e ciò gli piaceva; ma questa entità chiamava in causa altre entità a sé più o meno direttamente legate, e magari queste gli spiacevano, o non sentiva minimamente il bisogno di relazionarcisi. Se non lo stridente e doloroso conflitto fra una frizione netta per ciò che da quella entità discendeva e ciò che essa era.
O magari, essendo anche quella qualcosa dinamicamente in movimento, poteva in qualsiasi momento potenzialmente cambiare il quadro delle carte in tavola, in modo del tutto inaspettato (chi diavolo sa cosa possono avere in mente gli altri?).
E come avremmo potuto metterla poi, con un astratto concetto di possesso o di felicità che per te magari è nulla più che un'ovvia risultanza di un processo che in te ha inizio e fine, ma che in questo caso coinvolge e delega a un sacco di persone? O anche una sola, o tre, o dieci.
Un attimo di incomprensione, se non avevi la prontezza di farlo notare subito, nomandolo ed insieme esorcizzandolo, rimpicciolendolo, dandogli il giusto spazio prima della sua (a quel punto) inevitabile scomparsa, rischiava di divenire un pericoloso sedimento, che in due o tre giorni avrebbe raccolto attorno a sé detriti e dato origine a un nuovo nodo, che poi avrebbe inciso nel rapporto con quell'altro, o quegli altri, o perfino con te stesso.
Se non riuscivi a parlarne subito, così rischiando litigi, rischiando di essere spiacevole, rischiando l'attenzione dell'interlocutore, e via discorrendo... tutte cose che a L. parevano infiniti pericoli e fatiche non sopportabili.
Si era sempre immaginato – magari peccando di scarsa immaginazione - una seduta dall'analista come un lungo chiacchericcio del tipo sa mi ricordo di quando andavo alle superiori e c'era questa cosa della messa di natale; tutta la scuola, il giorno prima delle vacanze natalizie era tenuta a recarsi alla chiesa più vicina all'istituto, in cui appositamente veniva celebrata una funzione addirittura col vescovo e noi dovevamo essere tutti in divisa e in fila, e c'era uno di noi che tutti gli anni stava in cima e doveva portare la bandiera della scuola, e tutte le volte dopo poco che la messa era iniziata quel tizio sveniva e noi lo vedeamo sempre portato fuori in braccio, mentre qualcun altro prendeva la bandiera al posto suo e che significa dottore, che ho fatto una scuola maledetta da dio? Lo sapevo, l'avevo intuito, ero sicuro ci fosse un'origine lontana delle mie sventure e che per questo fossi così attratto dal seno delle donne e da queste invece parzialmente rifuggito o quantomeno tollerato. E il tizio che avrebbe annuito gravemente, mentre scribacchiava qualcosa d'importante sul suo taccuino, e nel giro di qualche seduta lo avrebbe trasformato in un uomo nuovo, una bomba sexy e una persona interessante, cui anche il fisico avrebbe risposto agli esercizi che faceva in palestra.
A volte, la vita è questione di passi giusti.
E invece tutto questo era nient'altro che un lungo esercizio su se stessi, frustrante, ed in definitiva non era nemmeno una seduta, perché non c'era proprio per niente da sedersi, nella vita. In piedi, e se qualcuno ti tira calci negli stinchi - perché ci sarà sempre qualcuno che tira calci negli stinchi - far finta di niente e pedalare, caro mio.
E i nodi? Vuoi preoccuparti dei nodi quando c'è qualcuno che tira calci negli stinchi e sputa?
E se poi anche il tuo lettore dvd smette di funzionare e tu avevi appena programmato di guardarti harry ti presento sally?
Ce le avrai le tue sfortune, eh?

dicembre 25, 2010

(Ma in fondo quale lavoro non è una fatica di Sisifo e non comporta lo spingere lo stesso masso in cima alla stessa collina, all'infinito? Il poliziotto perlustra a piedi sempre la stessa area; lo scrittore, finito di comporre un saggio d'ispirazione liberale-umanitaria, lo osserva scomparire e ne comincia un altro. Tutti noi passiamo l'intera giornata a spingere il nostro masso in cima alla collina - solo per ritrovarlo di nuovo a valle quando riemergiamo la mattina dopo. La vera punizione di Sisifo era che perfino dopo la morte dovette sobbarcarsi un lavoro normale).

(A. GOPNIK, Una casa a New York)

un libro che è come un brusio continuo, in sottofondo - lo vivi quasi con fastidio, una fatica, qualcosa di frustrante... ma dal quale ogni tanto (non aforismi, non la misura di brevi e perfetti luccichii) si innalzano arcate di conversazione vera, come virate improvvise di melodie bellissime che spezzano un non sempre sopportabile recitativo.
Come ad esempio questa.
Come molte altre.

dicembre 20, 2010


PUBBLICITÀ PROGRESSO

...sapete voi che dei tanti CRANI che qualcuno (non so, ve lo fate mai un esamino di coscienza? Berlusconi, Bondi, Cicchitto, Alfano, Gelmini, Brambilla, Gasparri, Schifani, Carfagna, Feltri, Castelli, Scajola, Mastella, Belpietro, Capezzone, Calderoli, Bonaiuti, Verdini, Zaia, LaRussa, Frattini, Bossi padre e figlio, Rotondi, Maroni, Prestigiacomo, Santanchè - tutta bella gente che è al governo, o comunque ha incarichi di responsabilità, o comunque ancora ha la facoltà di decidere su temi e questioni importanti & delicate. Fermatevi un attimo a riflettere, per cortesia: Vi fareste mai governare da uno qualunque di questi individui? Dareste mai a qualcuno dei sopraccitati un incarico di responsabilità? Deleghereste ai medesimi qualsivoglia cosa in nome e per conto vostro, o dell'interesse pubblico o del bene comune? Nella vita, le risposte a volte sono facili; più difficile è porsi le domande giuste!); sapete - dicevo - che di tutti questi qua, che qualcuno ha scelto, votato e (direttamente o indirettamente) messo su qualche importante poltrona, l'ultima costruttiva, istruttuiva, illuminante proposta di tal Gasparri Maurizio - ad oggi capogruppo dei senatori PdL (!) e già ministro delle telecomunicazioni, sottosegretario agli Interni, deputato AN, militante MSI, temp'addietro nel Fronte della Gioventù/Azione Giovani - è quella di carcerazione preventiva dei manifestanti, perché tra loro "si nascondono potenziali assassini e del resto si sa chi c'è dietro le violenze di Roma, qui ci vorrebbe un altro 7 aprile 1978" (era 1979 tra l'altro, ma perché pretendere da un tizio in gioventù soprannominato carrierino dei piccoli, e la cui espressione tra l'altro parla da sola)?
O che il ministro dell'interno Maroni parlava di estendere il DASPO previsto per gli ultras ai manifestanti di piazza?
(No, siccome funziona, sai...)
E tutto questo, in vista dell'approvazione al senato della riforma dell'Università - semplicemente, ultimo scellerato atto in ordine di tempo di un governo non-governo che si è autoproclamato del fare e che di tutto fa, ma non per chi dovrebbe, e chi non è d'accordo è un dissidente in malafede, al soldo dei comunisti.
Peraltro, già Ignazio LaRussa qualche giorno fa aveva più volte interrotto uno studente ad AnnoZero, ribadendo che per lui bastava così, per lui anche se non continuava era lo stesso, ed era una vergogna permettere simili comizi, eccetera eccetera.
E per tacer del Boss lui medesimo in persona, che degli studenti che contestano e in generale dei manifestanti - lungi dal condividere un apprezzabile adagio presidenziale che più o meno ammonisce sul fatto che "dai cortei dei giovani [venga] un significativo malessere, da non ignorare" - dice che farebbero meglio a corteggiar le ragazze e via così.

Liberali, pronti al confronto, seri, garantisti.
Tra le molte altre qualità di lor signori.
L'estremo che avanza, travestito da nuovo (nemmeno il vecchio: pure peggio!).
Ce li avete messi voi, che ci siete cascati. O - peggio - che avevate qualche interesse/naturale inclinazione a tutto questo.
Bravi.

(e non me ne frega un cazzo se con discorsi del genere uno può dare il suo modesto contributo a dividere ancor più il paese: lo sbarramento manicheo giusto/sbagliato, o con me/o contro di me, santi/dannati, l'hanno messo più o meno programmaticamente in piedi loro.
A me restate estranei quanto un gippone parcheggiato di traverso su un'aiuola.
Con voi niente a che fare. Mai).

dicembre 17, 2010


AMO ET ODIO

...ce l'avevano in tanti accanto al profilo, tempo fa, sui blog. Il popolo dei blogghettari, internauti, originaloni e quant'altro ama di queste cose settoriali e apodittiche al tempo stesso.
Indi per cui, essendo io uno dei summentovati, sol più stupido & frustrato, magari più patetico, chi sono per esimermi?


amo
Niente, son arido.

odio
(ma l'odio non sarebbe un sentimento totalizzante, qualcosa che ottunde et assorbe tutto il resto, impedendo di veder le cose quali in realtà sono? Se io dico odio questa cosa, in realtà non faccio altro che vedere questa cosa e nient'altro, facendoci confluire tutta la mia attenzione ed energia e di fatto compiendo un'azione esattamente contraria a quella che dovrebbe scaturire dal mio io nel momento in cui sto avendo davanti una cosa che spiace, nuoce o comunque dà noia: dandogli tutta l'attenzione che invece non dovrebbe meritare. Tutto giusto, ma è uguale, cazzo, quindi:)
odio
Odio quando sto parlando con - poniamo - x; sto dicendo: sai y? ha fatto questo, questo e quest'altro. Oppure: son stato lì, ho visto questo, questo e quest'altro. Arriva - poniamo - z. Non c'entra nulla con quello che viene detto, sente a malapena una parola, ma comincia insistentemente a intromettersi, perorarando: chi? cosa? chi è questo? che ha fatto? cos'è? come mai?
Solitamente a questa gente impazziscono orgasmicamente tutti i ricettori sensoriali quando captano le incaute parole: è morto. Salvatevi a quel punto dall'entrante e pernicioso flusso di domande, inserimenti molesti e via così.
Odio quando stiamo parlando - poniamo, ancora - io e x. X vede z, che conosce, proprio mentre stiamo dicendo qualcosa. X sgrana gli occhi e urla qualcosa tipo ooooooooo ciaooooooooo, e si corrono incontro e cominciano a ciaccolare, ridere, eccetera e tu resti lì, magari stavi pure dicendo qualcosa d'interessante. Z non se ne va e i due si estraniano in una posticcia conversazione che non c'entra nulla, piena di complicità spesso forzate o comunque fuori luogo. Solitamente z pare un buzzurro modaiolo arrogante plastione e festaiolo (idem al femminile).
Odio fare un lungo discorso a un qualsivoglia interlocutore, tipo anche davanti a me, poi quello mi guarda e fa: "eh?".
Odio quando corri e ti sembra d'averci qualcosa nella scarpa che ti male. Ti fermi sistemi la scarpa, fai due passi senza correre. Tutto ok. Riparti. La scarpa ovviamente ti rifà male. Ti fermi, la levi la scuoti, tiri il calzino, la rimetti, dici: aaah, ora sì. Riparti. La scarpa ti fa male esattamente come prima.
Odio quando - poniamo (ancora?) - x ti racconta i suoi mille aneddoti di vita, e a te non te ne frega un cazzo, o magari stai solo cercando di fare qualcos'altro, che ti sembra infinitamente più importante, utile e interessante. E poi, in definitiva, non te ne frega un cazzo di scipiti e triti aneddoti sconclusionati, che cominciano con ai tempi d'oro, ai miei tempi, quando ero a Cancun (potrebbe anche esser Peccioli, fa lo stesso), e via così.
Idem per quando - cioè, odio quando: - qualcuno sia x, y, z o macì o maciò, si lamenta. Oh, cazzo, come non sopporto le lamentele a vuoto, continue, lagnose, bubanti, compatìtemi, e io di qui e io di là, povero me povero me, povero me. Ecce homo, miserere, cazzi vari.
Odio quando ti tocca interessarti di cose di cui non ti interessa un cazzo, come ad esempio di un qualche articolo di cronaca locale su una retata o su una polemichetta di un piccolo comune per una viabilità o due strade scassate o una pista ciclabile. Sai che l'Iran c'ha l'atomica, o che Obama ha perso le mid-term, e devi anche far finta col tuo capo che t'interessi questa roba.
Odio una netta inflessione dialettale, qualunque essa sia. Per tacer del dialetto vero e proprio.
Odio quando - poniamo - x ti offre una cosa. Tu dici: no, grazie..., x te la offre di nuovo. Tu ancora: no, davvero, no. Ma che mi ci vuole, dice x, dai. No, no, non importa, no... Davvero? Sì, davvero (cazzo). E poi di solito x procede. E ti porta/offre/dà quella cosa.
Odio la neve, gesùssignore, quanto la odio, la neve.
Tutto sommato odio proprio un sacco di cose. Son veramente un essere spregevole, date anche le premesse.
Bah, mal per chi mi conosce, e vaffanculo.
OH, MA BUON NATALE, EH?
Già, ma quanto odio anche il Natale...

dicembre 14, 2010

UN PUNTO PIUTTOSTO BASSO

La vergogna del rendersi conto che il vecchio adagio sul peggio che mai ha fine è tragicamente vero è una vergogna di tipo diverso, con più rabbia, più frustrazione e - si può senz'altro immaginare - più godimento di chi, impunemente, alla faccia nostra, rubicondo e altezzoso, sta dall'altra parte.
Brucia tremendamente, e dà un senso d'impotenza quantomeno sconfortante: considerare che nani (quantomeno due), guitti di corte (parecchi), zoccole (idem), con tutti i loro raggiri e maneggi, i loro interessi in conflitto e le loro disonestà, le furbate le feste e le scandalose ricchezze (materiali, ma poco ci consola una presunta povertà d'animo); che gente tal questa, insomma, venga salvata principalmente da acquisti fatti nell'opposizione - l'opposizione, coloro i quali, come il loro appellativo certo suggerirà, avrebbero dovuto contrastare, arginare, ribattere un punto per ogni punto di un programma di governo che non è mai esistito, e si è fondato toto coelo sull'identificazione della cosa pubblica e del suo bene con l'interesse privato ed individualissimo di chi, di riffa o di raffa, è stato chiamato ad amministrarla o, per meglio dire, a metterci le mani sopra - tutto questo, insomma, è qualcosa che va al di là di ogni ben descrivibile stato d'animo, e dovrebbe appunto insegnarci una volta di più che al peggiore, variazione sul tema, la fine non è data, tanto più considerando la natura concreta - tra mutui, favori, eccetera - di simili acquisti, condotti in un modo smaccatamente rozzo e al limite (?) della corruzione.
È nemmeno la frutta: è l'ammazzacaffè!
È il re che potrebbe respingere i marcianti su Roma con un gesto della mano, e che invece va ad aprir loro le camere.
È il vecchio che permane, con i suoi sordidi agganci ed affarucci, però niente niente più meschino.
È la solita vecchia Italietta che si vorrebbe tanto vedere vestita di nuovo (semplicemente: più volgare e grossolana, in canotta Dolce&Gabbana, pareo Roberto Cavalli e occhiali scuri - veline drogate sullo sfondo e anziani satiri poltroniformi dediti al Viagra) ma che resta fondata sugli -ismi consueti: clientelismo, trasformismo, nepotismo. E su tutto, sua maestà il privilegio, per voialtri, classe eletta (da noi) e deputata (a cosa? A farvi belli & agiati a spese nostre?).
È - in definitiva - l'italia degli stessi costumi, che un tempo lontano aveva il volto di Agostino DePretis, e poi di mille e mille altri ancora, fino a Mastella e Capezzone - per dire, eh? - ed oggi  s'invera nelle facce (invero, da culo) di Maria Grazia Siliquini e Catia Polidori (ex FLI), Massimo Calearo (ex API), Bruno Cesario (ex PD), Domenico Scilipoti (ex IDV!). E poi ancora Giampiero Catone (ex FLI), Maurizio Grasssano (ex Liberaldemocratici), Antonio Razzi (ex IDV), l'ignavo Silvano Moffa (ex FLI, astenuto).
Brucia, sì. E brucia - infine - ancor di più perché è una bastonata sui denti, una tremenza mazzata a qualcosa che ha cominciato a muoversi, forse, chissà, magari, bisognerebbe (e una cosa così purtroppo non gli giova) non degenerasse - un po' di piazza vi ci vorrebbe proprio, cara casta d'inettitudine e inefficienze.

Dimettersi ora vorrebbe dire consegnare l'Italia in mano alle sinistre - e allora, cazzo di nano plastificato? Qual o dove è il problema? Quand'anche ci fosse qualcuno di sinistra, moderata estrema spuria mista alleata scesa a patti storica extra-parlamentare democratica marxista-leninista, farebbe peggio?
S'era mai visto qualcosa di simile?
E adesso - ma davvero nessuno ha detto niente, su questo? - richiudete un altro po' le camere, che avete lavorato pure abbastanza.
E poi tanto non c'era niente da fare, avete già fatto tutto, non vorrete mica limitarvi al già optimo break natalizio?
E poi, gli incontri istituzionali (vero, sindaco Renzi?) possono esser benissimo condotti nelle residenze private, no?, (e dopo, bunga-bunga per tutti, magari?). D'altra parte, se le escort si fan viaggiare sui voli di stato... la proprietà transitiva vorrà pure dir qualcosa, no?
Che Babbo Natale vi porti via e vi regali a qualcun altro, Cristiddio!
O vi uccida, faccia un po' lui. Ma via di qui, cazzo.