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dicembre 09, 2004

Una nuova, avvincente avventura per il micragnoso detective J.K. Malatrasio – un racconto noir, dalla diabolica mente di Jean-Cagotte LaMerde





Mercoledì, 8 Sterpajo 1987, ore 21:19
Lì, nel mio comodo tinello marron stavo alacremente compulsando quello che pareva decisamente essere un volume a cinque stelle, prima categoria assoluta in fatto di creazione scrittoria: Pravo Pravissimo, autobiografia a quattro mani di Patty Bravo. Tutto questo mentre amabilmente sorseggiavo una composta di mia creazione, la tisana-marmelloide al Giulebbe & Rosolio. Il Rosolio me l’aveva fornito Timmy, il mio amico frocio. Lo distillava direttamente lui, nella sua vasca da bagno. Ogni volta che pensavo al mio amico Timmy, chissà perché, mi venivano i brividi. Forse sarà perché di recente il temibile boss Palombaro Bistazzoni gliel’aveva giurata, promettendogli un biglietto di sola andata per Cerume, la mefitica località da cui non si torna; o forse perché il dottore gli aveva diagnosticato una rara malattia del Cinquecento, che aveva il potere di far diventare improvvisamente Daltonici. Timmy, quando non faceva la checca a pagamento su Alvarado Street, faceva il tassista, quindi ecco spiegate le ragioni del mio malessere. Beh, cazzi suoi. Finocchio del cazzo. Comunque fosse, sui miei brividi stavolta ci squillò sopra il telefono. Stavo per rispondere, quando ricordai la massima del mio ex-socio McGiorgetti, Orsus McGiorgetti (ora allettato sotto un buon metro di terra fresca): il telefono significa guai. Sempre. Specie se fosse stata mia madre, o qualche altro della famiglia, avrei potuto aggiungere. Quindi, da sopra, gli svuotai un caricatore Smith & Wesson, e funzionò. Smise di squillare, immediatamente. Tornai a sedere, fischiettando DITO-CULO, DITO-CULO, DITODITODITO-CULOCULOCULO, una composizione di mia recente creazione, di cui andavo particolarmente fiero. La luce, da un’elegante plafoniera della Normandia, sistemata con sobria eleganza nell’angolo sinistro della stanza, vicino alla porta, crepitava che era un piacere. Pagina centoquarantatré del mio libro mi aspettava. Recitava: “I malvagi l’hanno sempre in culo, per questo mi son fatta fotografare il rigoglioso pelo dal mio amico artista-zoppo Ampelio detto il-Cina”. Proseguii nella lettura, avidamente, mentre la mia mano giocava nervosa coi bossoli di UZI che avevo in tasca. È dura fare l’occhio privato, sapete: uno sporco lavoro, i bassifondi da bazzicare, e tutte quelle cose lì, insomma.

Sentii un POC!, un rumore sordo, secco, improvviso ed imprevisto. Alzai la testa. Niente. Sarà stato il vento, e nulla più, mi dissi. Ma la letteratura non serviva mai, in questi casi. E ormai mi aveva distratto, ragion per cui levai il culo dalla poltrona, presi la tazza (vuota) di Giulebbe & Rosolio, e andai in cucina, destinazione lavello. Girandomi, notai che da sopra il frigorifero colava qualcosa. Giallo o forse verde, viscoso ma liquido, passava attraverso la fessura dello sportello che incastonava perfettamente l’elettrodomestico alla cucina. Un fottutissimo blob inesauribile, a giudicare da come scendeva copioso. Febbrilmente, aprii lo sportello. La bottiglia dell’olio di Jano (il mio ultimo cliente, che mi pagava in bottiglie d’olio & masserizie varie) che avevo lì sopra era esplosa, e il liquido gocciolava giù, lento ma costante. Aveva già invaso il pavimento. Provai a pensare a qualcosa che non fosse morte & dannazione, porca puttana lurida & putrida, ora lo vedi che casino che fa quest’olio di merda sul parquet, io non lo volevo nemmeno ma quell’idiota giù a insistere, del tipo ovvia ne prenda un fiaschetto o due, che è tanto buono, poi mi rammenta quando lo mette sul pane, ma vaffanculo lui e tutta la di lui genìa. Ma non ci riuscii. Questo era esattamente quello che pensavo mentre facevo per prendere un pajo di rotoli di carta assorbente per tamponare quel disastro. Quell’orribile e viscido lago giallo-verde si spandeva sempre più. 

Poi, d’improvviso, l’illuminazione. Se mi sparo, pensai, non dovrò pulire questo schifo, e andrò in culo a tutto e tutti, magari pure portando sei di resto. Già, era esattamente così, maledizione. A volte avevo delle pensate grandiosamente lucide. Sì, Cristo Santo; era così che avrei fatto! Rivolsi la canna della pistola verso di me. Alzai il cane, e lo mollai di scatto. Ne valeva la pena. C’era stato solo un rumore, forte ma breve. E nulla più.

Più tardi c’era la ruota della fortuna, e non potevo perdermela per uno stronzissimo olio che colava da sopra il mio frigorifero. Senza contare che così avevo anche risolto i problemi di parcheggio che mi affliggevano ogni mercoledì sera, quando c’era la pulizia strade. E Loretta avrebbe pure smesso di darla al gatto, con la scusa che il cazzo mi sapeva di whisky (anzi, whiskey, specificava sempre – di quello irlandese). E c'avevo pure da pagare svariate taxes.

Non fosse che ero morto, la prossima volta che vedevo Jano, gli avrei detto il fatto suo, a lui e al suo olio di maledettissima merda.
Ma ero morto, dannazione. Riuscite, cazzo, riuscite a capire il mio dramma?

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