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agosto 24, 2005

Il semplice fatto di cercare un lavoro era un’agonia, da diversi punti di vista. Le vesciche trasformavano ogni passo in un tormento. L’ondata di calore, inesorabile e feroce, mi toglieva le forze e mi opprimeva sotto una cappa di aria inquinata che faceva lacrimare gli occhi. Ma la parte peggiore era psicologica: era il fatto stesso di chiedere un impiego. Non importava quanto spesso mi fossi ripetuto che decine di milioni di uomini avevano fatto la stessa domanda: per me era una novità. Ogni ufficio mi spaventava, poiché avrebbe rivelato la vuota disperazione del bisogno. Stavo, al di là di ogni apparenza a cui mi potessi aggrappare, pregando per ottenere un lavoro. Soltanto la progressiva sparizione del denaro dalle mie tasche (un dollaro a pranzo, due dollari per una camicia di ricambio, quaranta cent di mezzi pubblici) mi spingeva a insistere, poiché ero terrorizzato all’idea di finire sul lastrico e al pensiero di cosa avrei fatto a quel punto. Mi faceva rabbia essere spinto da un tale timore, e probabilmente si vedeva. Mi vergognavo di dover dire a ogni potenziale datore di lavoro che ero un ex detenuto, e forse nascondevo la vergogna dietro un accento di sfida.

Per tre giorni cercai nel centro, zoppicante, insicuro, strappato a ogni legame personale a cui ero stato assicurato in precedenza, in cerca del fondamento dal quale iniziare a costruirmi una nuova vita. Mano a mano che le monete mi scivolavano via di tasca, iniziai a sentire l'inesorabile pressione del tempo. Non riuscivo a trovare lavoro.

 […]

Di nuovo sui marciapiedi roventi, di nuovo sugli autobus affollati. Di nuovo nella squallida camera ammobiliata a contare i pochi dollari rimasti.


(E. Bunker)

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