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dicembre 26, 2010


L. pensava ai suoi nodi.
Sapeva di averne a migliaia, dentro di sé. Come capelli sporchi, che era poi un modo – anche se brutto – di sentirsi l'anima: capelli sporchi, sfibrati, nodi (appunto) e doppie punte. E andiamo.
Ne aveva anche parlato con uno bravo (se avessimo un'ambientazione newyorkese inizi '90 potremmo anche dire col suo analista), e in fondo sapeva che tutta la colpa era sua: sapeva che erano lì, che si erano formati e si stavano formando e si sarebbero formati ancora, e a poco valeva scioglierne uno o due, magari giusto in tempo per vedersene – o, per meglio dire, sentirsene – spuntare sette.
Per scioglierli, o quantomeno provare a farlo, gli era stato detto di fare la cosa che meno di tutte, forse, era disposto a fare: parlare, parlarne. Un nodo veniva per così dire isolato, minimizzato; e ridurlo in qualche modo voleva dire renderlo innocuo, se non del tutto sciolto. La personalità di ognuno di noi è come la superficie di una grattugia per il formaggio, gli aveva detto l'analista (sì, insomma: la persona di cui sopra), ed è molto facile, per non dire ovvio, che su quella superficie si fermi un sacco di roba, che questa si accumuli e si attorcigli, e dopo diventa tutto più difficile: prova un po', ad andare in giro con un sacco di roba non tuo, tutta appesa nei punti più scomodi e impensabili. Per scrollartela, però, ti può bastare guardarla, guardarla davvero, considerarla, e dire ad alta voce: ehi, e questo che diavolo è? E a quel punto lo togli. Facile. Se non se ne va, è segno che c'è da lavorarci un po' più in profondità, ma alla fine le cose che restano piantate lì sono una netta minoranza, ma se intanto sfoltisci tutto il ciarpame poi togliere quel che conta davvero sarà più facile.
Solo che, di parlare, L. non aveva proprio voglia. Era la cosa più faticosa che potesse immaginare, e la più vicina all'idea che si era fatto del concetto di frustrante che potesse avere: e se la persona che ho davanti di punto in bianco sbadiglia? E se qualcos'altro cattura la sua attenzione e mi rendo conto di star parlando a vuoto? E se mi vergogno? E se non riesco a dire quello che vorrei?
Coinvolgere altri soggetti, per quanto vicini, per quanto amici, in una cosa del genere gli pareva intollerabilmente difficile, e questo nonostante si rendesse chiaramente conto che tutto – i nodi, i disagi, le incomprensioni, come anche le cose più belle, dal fare l'amore al ridere passando per qualsiasi esperienza – fosse il risultato di una continua relazione con gli altri soggetti. Tutto è condiviso, e prima di tutto noi stessi; attraverso gli altri ci conosciamo di più, e solo attraverso gli altri – o meglio, attraverso la nostra esperienza con e degli altri: le emozioni che viviamo attraverso e assieme e in contrapposizione a loro, rielaborandole secondo il nostro punto di vista – acquistiamo significato: certo, gli altri ci lasciano un bel po' di ciarpame addosso, ma una volta che hai fatto una cernita (frutto di una più o meno approfondita riflessione sul concetto di altri), già hai circoscritto in modo utile – a quel punto si tratta solo di lavorare sugli episodi. Se il protagonista di Into the wild molla tutto e si ritrova solo in Alaska con un alce andato a male come (infausto) pranzo per giungere alfine a scrivere la felicità ha senso solo se condivisa, un motivo ci sarà.
Idem se è da sempre noto che siamo animali sociali. Un motivo, vuoi che non ci sia?
Da soli siamo un mare calmo e immoto. Bello quanto si vuole, ma piuttosto fermo, in tutti i sensi. Basta che qualcosa di esterno venga immesso – ed è, per così dire, inevitabile e giusto, ed ovviamente augurabile – ed ecco che la stasi se ne va. Ed è un bene. Da lì nascono confronti più o meno fecondi, opinioni, scintille, litigi, amplessi, pianti, frizioni, di tutto un po': da lì nasciamo noi stessi come persone, mari (al nostro punto di vista) che si confrontano e reagiscono ad altre forme di vita, più sullo sfondo, sul nostro sfondo – ciascuno il suo – ma agenti volontari o involontari, ditretti o indiretti di un buon 99% di tutto ciò che accade nel mare dell'io.
E per L. era proprio questa la causa della sua crisi e dei suoi nodi: magari aveva a che fare con una certa entità, e ciò gli piaceva; ma questa entità chiamava in causa altre entità a sé più o meno direttamente legate, e magari queste gli spiacevano, o non sentiva minimamente il bisogno di relazionarcisi. Se non lo stridente e doloroso conflitto fra una frizione netta per ciò che da quella entità discendeva e ciò che essa era.
O magari, essendo anche quella qualcosa dinamicamente in movimento, poteva in qualsiasi momento potenzialmente cambiare il quadro delle carte in tavola, in modo del tutto inaspettato (chi diavolo sa cosa possono avere in mente gli altri?).
E come avremmo potuto metterla poi, con un astratto concetto di possesso o di felicità che per te magari è nulla più che un'ovvia risultanza di un processo che in te ha inizio e fine, ma che in questo caso coinvolge e delega a un sacco di persone? O anche una sola, o tre, o dieci.
Un attimo di incomprensione, se non avevi la prontezza di farlo notare subito, nomandolo ed insieme esorcizzandolo, rimpicciolendolo, dandogli il giusto spazio prima della sua (a quel punto) inevitabile scomparsa, rischiava di divenire un pericoloso sedimento, che in due o tre giorni avrebbe raccolto attorno a sé detriti e dato origine a un nuovo nodo, che poi avrebbe inciso nel rapporto con quell'altro, o quegli altri, o perfino con te stesso.
Se non riuscivi a parlarne subito, così rischiando litigi, rischiando di essere spiacevole, rischiando l'attenzione dell'interlocutore, e via discorrendo... tutte cose che a L. parevano infiniti pericoli e fatiche non sopportabili.
Si era sempre immaginato – magari peccando di scarsa immaginazione - una seduta dall'analista come un lungo chiacchericcio del tipo sa mi ricordo di quando andavo alle superiori e c'era questa cosa della messa di natale; tutta la scuola, il giorno prima delle vacanze natalizie era tenuta a recarsi alla chiesa più vicina all'istituto, in cui appositamente veniva celebrata una funzione addirittura col vescovo e noi dovevamo essere tutti in divisa e in fila, e c'era uno di noi che tutti gli anni stava in cima e doveva portare la bandiera della scuola, e tutte le volte dopo poco che la messa era iniziata quel tizio sveniva e noi lo vedeamo sempre portato fuori in braccio, mentre qualcun altro prendeva la bandiera al posto suo e che significa dottore, che ho fatto una scuola maledetta da dio? Lo sapevo, l'avevo intuito, ero sicuro ci fosse un'origine lontana delle mie sventure e che per questo fossi così attratto dal seno delle donne e da queste invece parzialmente rifuggito o quantomeno tollerato. E il tizio che avrebbe annuito gravemente, mentre scribacchiava qualcosa d'importante sul suo taccuino, e nel giro di qualche seduta lo avrebbe trasformato in un uomo nuovo, una bomba sexy e una persona interessante, cui anche il fisico avrebbe risposto agli esercizi che faceva in palestra.
A volte, la vita è questione di passi giusti.
E invece tutto questo era nient'altro che un lungo esercizio su se stessi, frustrante, ed in definitiva non era nemmeno una seduta, perché non c'era proprio per niente da sedersi, nella vita. In piedi, e se qualcuno ti tira calci negli stinchi - perché ci sarà sempre qualcuno che tira calci negli stinchi - far finta di niente e pedalare, caro mio.
E i nodi? Vuoi preoccuparti dei nodi quando c'è qualcuno che tira calci negli stinchi e sputa?
E se poi anche il tuo lettore dvd smette di funzionare e tu avevi appena programmato di guardarti harry ti presento sally?
Ce le avrai le tue sfortune, eh?

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