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ottobre 18, 2006

“Voglio levarmi di qui, chiamala come ti pare: dare le dimissioni, licenziarmi, un calcio a tutto quanto, quel che cazzo ti pare. Tanto, ho sempre odiato venirci. Di cosa sa? In più, se non devo nemmeno riscuotere…”
“e poi che fai?”
“Cazzo amico, sarà possibile che le parole siano sempre le solite? Il lavoro non si lascia, senza lavoro che fai, come fai a tirare avanti, e via e via. E anche le cose devono essere sempre le solite; sembrate fatti in serie, ma guardatevi. Dopo la scuola, la scuola dell’obbligo dico, c’è il lavoro – questa sarà la tua vita per sempre poi magari ti sposi metti al mondo un paio di figli e ti dividi fra lavoro e figli, finché loro non crescono e poi ti resta la pensione e il rimpiangere il lavoro perché sei ti sei tenuto solo il lavoro, quando non ce l’hai più son sonorissimi cazzi. Quindici giorni l’anno si va in ferie, e poi c’è Natale, ogni anno. Magari una volta nella vita trasgredisci e c’hai pure l’amante. Che faccio, io? Che cazzo fanno quelli come te! Io vorrei fare la fame, vivere in un buco di culo raccattato all’ultimo, cosa vuoi che me ne freghi della vita normale. La gente pensa che tutto deva andare andare come va normalmente, che sia quella la normalità, o che ci sia una normalità. Uno ogni tanto ha soldi, ogni tanto no; e quando non li ha tira la cinghia. E basta. Per mangiare devo fare queste cose, per forza? Davvero, non c'è altra via? Io lo so che c'è qualcos'altro.
Merda, vorrei vivere male, e le cose che non posso fare non le farò, figurati il problema, e nel frattempo potrei scrivere una pièce teatrale – la chiamerei Office, c’ho già pure parecchie idee, oggesù se ce le ho. Pensa: quattro scrivanie sul palco, incastrate in qualche modo, e quattro impiegati. Fogli, pratiche, grattacapi vari sulle scrivanie; solo quattro luci da tavolo accese, e ognuno, a turno o a volte sovrapponendosi, bisbiglia dalla propria le sue idee, i suoi risentimenti, le sue ansie da ufficio. Le antipatie per i colleghi, quello che si definirebbe il buon senso borghese, la facciata su cui poggia tutto, le sue avventure piccole e stinte. Non so, uno potrebbe dirlo accucciato sotto la scrivania; un altro potrebbe salire in piedi su una sedia; un altro ancora gridare: ognuno secondo la sua personalità. Tutti vestiti bene, almeno decorosamente, e tutti spaventati, agitati, come mossi da qualcosa che ci sfugge, ma che è in tutti noi, sotto la facciata; tutti acidi e pieni di tensioni. Si bisbiglierebbero contro l’un l’altro, saprebbero dir cattiverie e meschinità, e tutti sarebbero come autistici. Perché è questo quello che siamo, qui. Siamo dei poveri infelici, e facciamo finta di non esserlo, ognuno nel proprio mondo piccolo e limitato. Dietro il proprio paravento, in falsa tranquillità, a mostrare interesse, a fare-finta-di, a esser seri e disponibili e interessati professionalmente a cose di cui t'importa un cazzo, in realtà. In nome della tredicesima e del TFR e di chissà quale altra stronzata siamo pronti a vivere la propria vita in un ufficio, in un magazzino, in un negozio. Il vecchio Kafka l’aveva capito, e preferiva immaginarsi ci fosse un avvoltoio a beccarti i piedi finché non ne restava nulla, finché quello non ti saltava al collo, sfondandotelo, perché s’era rotto il cazzo di star lì. Io vivrei bene, facendo un po’ di fame, altro che stronzate…
anzi, sapete cosa vi dico?”
“Cosa?”
“Andate affanculo, tutti quanti siete. Io lo so che c'è qualcos'altro. Ci deve essere"
 

1 commento:

Pincherle ha detto...

Giorno per giorno ti sto leggendo(durante le mie pause rabbiose)e lo faccio molto volentieri.

Ergo ti linko anch'io.