ARTICOLO UN PO' LUNGO, MA INTERESSANTE...
“La REPUBBLICA”, OGGI – L’IMPORTANTE È CHIAMARSI DOCTOR: COSÌ MANAGER E POLITICI ARRICCHISCONO I LORO BIGLIETTI DA VISITA.
Uno degli ultimi “doctor” è venuto a laurearsi col suo elicottero privato: tanto per dire di quale livello sociale parliamo. Molti portano i figli grandi. Qualcuno, ricevendo la benedetta pergamena, si scioglie in lacrime: “L’avevo promesso a papà sul letto di morte”. Hanno almeno quarant’anni, sono uomini di successo, ricchi e molto spesso famosi, tutti divorati da un unico desiderio: tappare quel vuoto sulla parete, che pesa come una vergogna, con una bella cornice d’argento attorno al “pezzo di carta” sospirato, il diploma di laurea di qualche università, senza sottilizzare, va bene anche se ha un nome improbabile come “The Honolulu University”.
Eppure esiste, la Honolulu University delle isole Hawaii, e […] sono ormai decine gli italiani che hanno appeso alla parete il suo degree. Così come esiste la Clayton University, balzata agli onori delle cronache da quando Stefano Ricucci, l’arrembante immobiliarista che vuole comprarsi il Corriere della Sera, ha rivelato di esservisi laureato in Economia. La Clayton non si sa bene dove stia (pare in Missouri, ma sul sito internet dà un indirizzo di Hong Kong), comunque Ricucci non ha dovuto preoccuparsene per andare a sostenere i suoi 18 esami di Bachelor e gli altri 18 di Doctor, né per discutere la dissertazione finale. Si fa tutto in Italia. Comodamente. Senza mai vedere un solo professore americano, senza neppure essere tenuti a pronunciare una sola parola in inglese. Gli esami, a Roma. Solo per la Laurea si va all’estero: nella Repubblica di San Marino. Dove la Clayton, la Honolulu, la Adam Smith University (che risulta sempre domiciliata alle Hawaii) hanno una succursale attivissima, che produce una quarantina di doctor ogni anno.
Trovare l’ateneo dei ricchi e famosi non è semplice. Il palazzo di vetrocemento esibito sul sito internet è in realtà un condominio direzionale sullo stradone che da Rimini sale alla Repubblica del Titanio, cento metri oltre il confine. Sali al secondo piano, sopra un mobilificio, e suoni al campanello che dice European Institute of Technology. Un corridoio, due segretarie, un’auletta, un bagno e tre uffici, nell’ultimo dei quali trovi il direttore, Aureliano Casali, un simpatico esilissimo sammarinese di 78 anni che fuma sigarette al mentolo, pioniere degli studi di psicocibernetica. L’EIT è figlio suo, esordì nel ’92 con corsi di chiropratica, osteopatia, naturopatia e altre medicine alternative, ma s’accorse presto che l’attività più promettente era un’altra: il brokeraggio delle lauree a distanza.
“Noi non rilasciamo lauree, per favore lo scriva perché il governo sammarinese è severissimo. Noi mettiamo solo in contatto l’aspirante laureato con l’università americana più adatta a lui”
Perché americana? Negli USA non esiste il valore legale della laurea, qualunque privato può aprire un ufficio e chiamarlo University più un nome di fantasia, meglio se altisonante. Poi bastano una sede, due professori e bilanci in regola, e l’università può pure rilasciare degrees con l’intestazione in lettere gotiche. Tanto il valore di una laurea, negli USA, viene dal prestigio di chi la rilascia. E la Honolulu e la Clayton, […] si sarà capito, non sono proprio al livello di Harvard o Yale. “Noi non promettiamo Harvard”, protesta Casali, “però non siamo neppure i soliti venditori di lauree fasulle. Abbiamo una clientela d’élite, non inganniamo nessuno, chi si rivolge a noi sa precisamente cosa ottiene”. Sa, perché c’è scritto nel modulo di iscrizione, che le lauree di queste “università non tradizionali” che si autodefiniscono open university per distinguersi da quelle con aule e campus e sono poco più che centri di formazione per corrispondenza, non hanno valore legale in Italia, nel senso che un Doctor in Architettura della Honolulu non potrà mai fare l’esame di Stato per diventare architetto, e il Doctor in Economics della Clayton non sarà mai ammesso a un concorso pubblico che richieda una laurea.
“Ma i nostri studenti non ne hanno bisogno”, sorride Mario Festa, direttore del Campus romano dell’EIT, vale a dire degli uffici di piazza Rondanini dove Ricucci, sotto la sua personale supervisione, ha preparato gli esami. “Non chiedono una laurea per far carriera: il successo l’hanno già raggiunto”. Ma allora a cosa gli serve? Perché spendere dieci o dodicimila euro per un titolo sconosciuto e inservibile? Solo per la vanità di un “dott.” sul biglietto da visita? Anzi neppure quello, perché tutto quello che l’EIT è riuscita ad ottenere dal ministero è che i “suoi” laureati possano fregiarsi, senza incorrere nell’abuso di titolo, del prefisso anglofono “dr”, ma assolutamente non dell’italico “dottor”.
“Non è pura vanità”, spiega Festa. “Pensi all’imprenditore che ha costruito un piccolo impero faticando, lasciando gli studi, e adesso sente la mancanza di un riconoscimento per ciò che ha saputo fare. Pensi al commercialista titolare di un grande studio, costretto a vergognarsi del suo povero “rag” di fronte a tutti i giovani “dott” a cui dà lavoro. Pensi al dirigente di Mediobanca (non è un esempio inventato) che non ha nulla da scrivere davanti al nome sulla targa dell’ufficio…”. Manager, professionisti, politici (“abbiamo fatto laureare tre sottosegretari in carica”) non hanno il tempo, né forse l’umiltà di andare a sedersi sui banchi dell’università di massa, assieme ai ragazzini. Cercano una strada più semplice, riservata, efficiente, veloce. Pazienza se un “dr” non vale come un “dott”: quanti se ne accorgeranno? […]
Qualche volta, comunque, anche un “dr” serve a fare carriera davvero. Certi datori di lavoro s’accontentano della forma. “Molte banche chiedono la laurea per la promozione, e accettano anche quelle straniere. Il direttore della divisione italiana di una grande multinazionale è diventato direttore europeo esibendo una laurea Clayton”. Del resto, è un buon affare: poche migliaia di euro, il costo di una vacanza per i facoltosi businessman che si rivolgono ai brokers di San Marino. “Serve anche un po’ di sforzo”. Sforzo? “Devono pur studiare”. Ah, certo. “Su questo non si transige. Dopo la vicenda Ricucci ci telefonano a decine, vorrebbero pagare e avere subito la pergamena, s’infuriano quando spieghiamo che i libri devono studiarli davvero, almeno per un paio di anni”.
Anche qui, però, non siamo a Yale. L’executive-matricola può mettere a frutto, se ne ha, gli esami di carriere universitarie interrotte, ma soprattutto i suoi “crediti professionali”: essere commercialista, aver fatto un master a pagamento alla Bocconi, o anche solo un corso d’aggiornamento alla Guardia di Finanza può valere uno sconto sul piano degli studi: da una ventina di base, gli esami possono anche dimezzarsi. I rimanenti vertono anche su “programmi personalizzati”, cioè ricalcati sugli interessi e le competenze del candidato. Anche la laurea è una specie di relazione professionale: come Ricucci, che ha fatto la tesi sul mercato azionario, i doctor studiano se stessi. Gli esaminatori, reclutati dall’EIT un po’ nelle università italiane, un po’ nelle professioni (le University si fidano, non mandano neppure un commissario) lo sanno e non esagerano nelle pretese.
Così, è vero, si ribalta il senso dello studio: la laurea non è la premessa del successo nella vita, è il suo coronamento, il suo premio. Ma nel paese delle lauree honoris causa a pioggia, cantanti rock e campioni sportivi in testa, non è forse quello che già succede anche nei nostri atenei più prestigiosi, per volere di rettori ermellinati che si metterebbero a ridere di fronte a un diploma intestato Honolulu University?