Alla fine, quante sono le persone con cui stabilisci veramente un contatto?
E - se riesci a fare un passo indietro e a guardarti - non è buffa la terrazza sulla quale sta il tuo io mascherato da qualcos'altro di fronte ad altri io mascherati da qualche cos'altro in nome di chissà qual convenzione sociale e quale dover essere e quali buoni rapporti?
Siamo più noi stessi o i nostri personaggi? E siamo consapevoli, quando indossiamo una maschera, di indossarla?
La maschera può essere una difesa in un mondo di zombie; spesso però è una cosa che ci sfugge di mano, e il nostro io diviene quella (o quelle) maschera, quel particolare modo di porsi, la maniera in cui altri ci vedono.
La differenza è sottile, e spesso la valichiamo in modo del tutto inconsapevole, perché a questo ci spingono inconsciamente, senza volerlo, le nostre paure e i nostri complessi. Soprattutto, una particolare combinazione - una combinazione assai funzionale alla società nel senso in cui questa è intesa in Occidente - negativa fra nostri desideri e loro negazioni. Di fatto, non esistono cose che riguardino direttamente noi stessi che non possiamo fare.
A limitarci cioè non è l'impossibilità in sé, l'impossibilità come concetto astratto, bensì le nostre paure di non potercela fare, il nostro senso di inadeguatezza: e lo io voglio diviene io vorrei.
A limitarci cioè non è l'impossibilità in sé, l'impossibilità come concetto astratto, bensì le nostre paure di non potercela fare, il nostro senso di inadeguatezza: e lo io voglio diviene io vorrei.
Da affermazione a pura aspirazione, e a questo punto di solito si è già perso il concetto di essere, e quello di avere resta del tutto indefinito: un dover essere non ha - non si merita, non è degno - di qualsivoglia avere: e come fai ad avere se non sei?
La ricompensa del dover essere, il suo attributo è del tutto autoreferenziale, del tutto in se stesso, nella maschera che si mette per essere in quel determinato modo. I rapporti interpersonali sono solo formalmente interpersonali (assumendo come dato certo il fatto che ogni atto comunicativo è un atto circolare, qui di fatto non si crea nessun percorso, non avviene nessuno scambio: due maschere si parlano solo perché si devono parlare, perché in un dato momento questo è necessario per convenzione sociale, utilitarismo, necessità. O anche solo per rifugio da qualcosa - di solito, sempre noi stessi).
Si capisce anche come tutto sia più facile e meno gravoso, per un personaggio che recita una parte. Da qui la comodità di continuare a recitare; recitare qualsiasi cosa: un ruolo da padre di famiglia, ad esempio, o da dipendente vessato, o da Grande Medico, intellettualoide, madre amorosa, e via così.
Ma la maschera può facilmente diventare troppo appiccicosa, ed ecco che diveniamo gli zombie di noi stessi, e (ulteriore meccanismo di difesa dei personaggi che ci creiamo per poi farci prendere tutto e dominare, in uno schema assurdamente riassumibile nel percorso "da padroni a servi") tiriamo giù una barriera che ci impedisce di vederlo. Fino a perdere del tutto il contatto con la propria essenza; fino a non sospettar nemmeno più di essere degli zombie
Come in Terminator le macchine prendono il sopravvento, questa è la nostra direzione inesorabile: la maggior parte delle persone che conoscete sono puri personaggi, maschere, zombie; entità che hanno mangiato irreversibilmente loro stessi e vivono di (e in) quel loro guscio, loro malgrado e con loro beata gioia, in un paradosso che se visto da fuori, facendo quel passo indietro di cui si diceva poco sopra, è quantomeno buffo.
Per questo stabilire veramente un contatto è difficile e raro. Ammesso che si possa, presuppone che tu sia il tuo io. E che lo stesso valga per l'altro: un altro-da-te che sia un-altro-io.
2 commenti:
cazzo, come post inaugurale del nuovo spazio-non spazio, non c'è male...
Molto bellissimo!
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