VANY MAPRINKOVICZ - Retrospettiva militante d'artista, per scuoter le coscienze & mostrar la via. All'atelier "Ingresso a strozzo - pagare veloce o scappar repente", di Ciapetti Vaurilio
La fotografia è un mezzo di espressione artistica autoreferenziale, valido e pregnante in sé e per sé? Può solo rappresentare l’Altro, l’Esistente, o può raffigurare autonomamente il Nuovo, dando vita, magari combinandosi ad altre forme d’arte, a un Nuovo Esistente? Se mangio veloce tre etti di mortadella senza pane, poi sto male?
Questi e molti altri sono gli stimolanti e (apparentemente) insondabili interrogativi che da sempre hanno spinto Vany Maprinkovicz a muoversi lungo un percorso al termine del quale si situa senz’altro la mostra-evento che si inaugura oggi presso lo stanzone-atelier-cantiere del Ciapetti, galleria-sottopasso 3, urlare BBBEPPPEEEEEEEEE sotto la finestra coi geranî che Beppe è il Gustode – lui lo dice così, sconsigliato contraddirlo – e c’ha lui le chiavi ma non lo disturbate alle 15 perché sta cacando e ci sta che s’inalberi parecchio, provare per credere, io c’ho sempre un occhio nero e il culo che mi frizza.
Nata 28 anni orsono, in un ridente paesino alle pendici del monte Rancore, la poliedrica artista Magravia (?) ancorché di origini Bosniache e anche un po’ Italiane (la nonna è stata una volta a Pavia, in visita alla C.A.P.Ra. – Centro Autonomo Pavese di Raccolta. Di che? Ma di Stronzoli, mi par chiaro), alla sua prima retrospettiva monografica in Italia, si presenta nel segno della sperimentazione militante e del lucido scandaglio provocatorio di coscienze (parole dell’artista) “ormai languenti, apatiche, misere e vili”.
Ecco quindi spiegata e motivata la monumentale serie dei Senza Titolo I-XVIII, diciotto (apparenti) tele dal colore uniforme e lucido, ora nero, ora bianco, ora rosso. All’origine ci sono altrettante fotografie, ingrandite a dimensione della tela e qui incollate a mezzo coccoina e attack, indi completamente ricoperte di vernice colorata e riflettente, quasi uno specchio. Le foto non si vedono né si intuiscono, e simboleggiano probabilmente il vero animo umano, ricoperto dai detriti lucidi di quella che vorremmo (tanto) chiamare civiltà. Interrogata al riguardo del contenuto delle foto, l’artista non ha voluto rivelare cosa esse contenessero in principio, proprio perché, secondo un paradosso a lei tanto caro, “nel non sapere sta il sapere, e nel sapere l’ignoranza”. 'Sticazzi, mi son detto qui, ingoiando aria.
L’evoluzione del di-lei pensiero (“siamo come un fiume che scorre, ci arricchiamo ogni giorno di nuove cose”, ha spiegato la Maprinkovicz nella conferenza stampa-rinfresco a seguire l’inaugurazione, signorilmente ignorando qualcuno - chi mai? - dal pubblico il quale, dopo aver sonoramente ruttato, ha chiosato con un "arricchisciti di questo"), poi, ci porta poi alla serie dei Senza Titolo con Decorazioni XIX-XXVII, lavori strettamente collegati ai precedenti, come questi realizzati (ancora: fotografia ricoperta da vernice uniforme), e da questi differenti soltanto per alcune piccole sgocciolature (dripping) colorate fatte cadere dall’alto sulla tela, prevalentemente ma non necessariamente ai lati, a disegnare un percorso "misero e scarno" sì, ma che rispecchia in pieno "il timido risveglio della coscienza dell’uomo di fronte alla crudeltà del mondo”. O almeno, questa è l’interpretazione che ne ha dato lei, ammettendo tuttavia molte altre chiavi di lettura, perché la sua è un’opera che “deve muovere anzitutto alla riflessione, da dentro ognuno di noi" (qui, altro sonorissimo rutto, con - invero un po' inflazionata - aggiunta: "a me mi smuove questo").
L’obiettivo meditativo-profondo-catartico, del resto, è stato perfettamente centrato, visto che i - pochi: ah, languenti coscienze del mondo massificato! - presenti si sono più che altro dati alla contemplazione delle due serie, di quando in quando pettinandosi e sistemandosi i nasi, tipo me che c’avevo una stizza che non mi dava tregua da quando m’ero alzato, e siccome dopo c’avevo da vedere una phya, non mi pareva bello farsi trovare con un corno ritto tipo Goldrake. Grazie, Arte!
Proseguendo nel percorso allestito per noi dall’artista, troviamo la Stanza Vuota e Sventrata Senza Piastrelle, della quale mi sfugge il senso ma vedrai uno c’è (Beppe non l’ha ancora vista, e mi sa che non la prenderà bene), la serie di foto sperimentali (per lo più nere e uniformi, con oggetti non bene identificati a farsi intravedere ogni tanto: una volta si riconosce un tallone, altre volte una mensola sfocata, altrove un pupazzo con qualcosa nel culo) a titolo Coniglismi, e il Nano Mantecato all’Amarena, opera, quest’ultima, realizzata in collaborazione con il misteriosissimo nanogeno che qualche tempo fa imperversava con la sua arte performativa nelle piazze e nelle case d’italia. Non avendo mai voluto rivelare niente di sé, nulla ha concesso nemmeno in questa occasione, nascondendosi (probabilmente) tra i visitatori e non consentendo neppure che il nano originale, in gesso bitume e cernit, ricoperto dalla Maprinkovicz con un abbondante quanto vistoso strato di vernice lucida color minio e ghirigori rossi, a coprire presumibilmente anche un'altra serie di fotografie del cazzo, figurasse come opera sua. Ma – certo – è indubbio, anche se, una volta acceso, il nano non è scoppiato come di consueto, mandando bensì solamente un lieve sibilo minaccioso, prima di vedere volutamente spenta la sua miccia, in un gesto altamente simbolico dell’hic et nunc, in cui – ha spiegato la Maprinkovicz – “non si fa nemmeno il botto, ché tutto è torpore. E quindi la missione dell’artista, col suo genio, è sferzare, risvegliare, aprire la via”. A quel punto io ho rotto un paio di bombette puzzolenti in un par d'angoli, e me ne sono andato. Bello, avergli ruttato così, però. Son soddisfazioni.
1 commento:
Guarda: solo per il titolo del tuo blog meriti i complimenti!
Con calma, leggerò qualcosa, prossimamente. :-)
G.
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