Ero un ragazzino. Avrò avuto (in realtà lo so benissimo: avevo quattordici anni, quindici da compiere di lì a qualche mese - ma, si sa, la vaghezza fa maudit) tredici-quattordici anni, e nella mia prima estate da studente delle scuole superiori, lavoravo (dovrei dire: guadagnavo il mio primo fantastiliardo in gettoni d'oro, dentro cui di lì a poco mi sarei sollazzato facendo il bagno e tuffandomi di testa) come cameriere con obbligo di stappamento bottiglie ai matrimoni, con relativa piaga sanguinante sul pollice sinistro (o forse destro, o forse entrambi: quando non hai più niente per controbattere il nemico, tiragli, misero, la gruccia!) e conseguente promozione/arretramento al bar, con obbligo di tenuta rifornimenti in termini di beveraggi, cocktail (forse) e camparini (più che altro) serviti agli avventori demodè dell'albergo-ristorante "Tònfami", di Tirami-La-Leva, provincia di Supremo.
Tra gli avventori si segnalava il Tonarelli, un tizio litigioso col prossimo e che però pareva Ray Charles pvrtvttavia vedente, che camminava col bastone (lui, no Ray Charles) e arrivava puntuale ad aggrapparsi al bancone del bar per chiedere un Brancamenta doppio o a volte anche un Rabarbaro Zucca, gli occhiali scuri a fondo di bicchiere (ecco perché sembrava Ray Charles) e i crespi capelli grigio-bianchi che parevano afro (idem).
Ma non è questa la sede o lo scopo del raccontare, indi per cui passiamo sopra al Tonarelli, che peraltro - bontà sua, o anche: poveraccio! - sarà già ampiamente morto stiantato, e anche in virtù di ciò - svppongo - lo si può archiviare tosto.
Il quid della narrazione son qui le aspettative e i fremiti dell'adolescente, che ha speranze per l'avvenire, che brama il successo, che sogna l'arte, che vuol esser emulo de' suoi ydoli: suonare il piano, cantare, vestirsi a cazzo ed incantare stuoli di ragazze.
Essere Elton John.
Avevo già capito tutto, della vita.
La sera che nel paesello, come da consuetudine settimanale, suona il duo "Maurilio & Giobatta", voce e tamburello uno (il bello del paese, brizzolato e a metà fra l'hippy ed il vintage), chitarra & tastiere e tutto il resto l'altro (maestro di musica alle medie, vecchiarello dal capello grigio ma l'animo ancor indomito); dicevo, quando arrivano 'sti due, per il ragazzino che era in me - e dico era non a caso: è morto lì - è una festa péi sensi e una passata di carta moschicida sulle aspirazioni e aspettative.
La Matrona dell'Albergo-Ristorante, con la sua còfana di capelli falso scuri, a fine serata m'introduce, me ragazzino che tutta la sera ha passato a portare a' tavoli dei partecipanti alla serata con obbligo di ballo e felicità per tutti, nell'ordine: gassose, crodini, analcolici biondi e anche castani, a seconda del grado di invecchiamento non necessariamente lodevole, ancora crodini, acquebrillanti e tè freddi liposciolti nell'acqua del syndaco, noccioline e spume bionde - insomma: la matrona dell'istituzion del posto m'introduce appo i due inconstrastati ydoli, a cui ho comunque già portato acqua, birra, acqua, e anche una coca-cola.
Sicché insomma, ci sarei anche un pochino familiare, via.
Ella, che m'ha sentito suonare lo scordato piano della sala da pranzo, mentre che al bar non veniva nessuno, dice:
"Lo sapete? anche lui suona... è in gamba, 'sto ragazzo!"
(La signora mi fa un po' da mamma surrogata e m'ha preso a benvolere, anche perché sono a settecentoquattordici chilometri da casa - in realtà sarei a dodici minuti di treno, sì e no ventun chilometri dalla casa avita, però tutti in salita).
L'ex-maestro di musica è l'unico che ascolta; la gente è ormai sfollata, e il cantante ancor piacente è probabilmente a sgrondar il merlo, per via di tutte quelle birre.
C'ha pure un orecchino. Vado in sollucchero e mi ràvano le mani, emozionatissimo.
Sto. Un po', svdo.
Ma sicché, scrollando l'argentea chioma, mentre sta rimettendo tutto l'armamentario (addirittura un Atari col Cubase, collegato via MIDI alla chitarra-synth!) mi fa qualche domanda: cosa ti piace, cosa non ti piace, che intenzioni hai, e via così.
Due minuti, poco più (mentre la Matrona è già tornata ad incassare, registratore di cassa chiuso, tutti in mano, metta qui grazie, ce li deve aver precisi però, ok, va bene?), poi torna la voce+tamburello (al secolo: Maurilio), che si mette in buona lena nell'arrotolamento d'un cavo, il gomito come perno e l'altro braccio a mulinello.
Giobatta: "lo sai, Maurilio? Anche lui è un musicista, eh!"
Maurilio: "sì? Senti, senti allora: orecchio!"
E lascia andare un lungo peto, stridulo, quasi flautato, che va a morir come in agonia.
Giobatta: "sentito? questo era un do calante!"
E mi strizza l'occhio. Maurilio, invece, imperturbabile, continuava ad avvolgere il cavo.
Il gomito come perno, e l'altro braccio a mulinello.
Ecco come morì, il ragazzino che era in me.
(Che poi, quando fu giorno di paga, dopo due mesi, scoprii pure che non avevo neppure guadagnato il mio primo fantastiliardo in gettoni d'oro.
Niente bagno per sollazzarmi: se volevo potevo pure tuffarmi, ma avevo solo da picchiare in terra la mia testina. Di cazzo.)